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Locandina1Natura “viva”

Mostra retrospettiva del geometra pittore Roberto Delaiti

“Amo quella zona di passaggio dove una pittura figurativa tende a trasformarsi in “altro” (informale, espressionismo astratto), ma non attraversa il confine e rimane al “limite estremo” del figurativo. Mi piace la pittura che con poche e veloci pennellate racconta ancora qualcosa del reale, ma anche altro, quando dal paesaggio tradizionale inizia a inoltrarsi in paesaggi interiori dove i colori e le pennellate sono lì ancora a rappresentare cieli e colline ma anche altro, a indicare percorsi cromatici che parlano di pittura, di percezioni, di emozioni non esprimibili in altro modo.”1

Roberto Delaiti

L’intensa vicenda artistica che mi appresto a raccontare mi piace pensare abbia avuto inizio nel fecondo silenzio di un grande parco, un silenzio dove sia possibile scorgere l’armonia di un’idea, un’ispirazione pittorica molto profonda e incisiva. Magari un parco simile a quello del Noce Nero, che Roberto Delaiti era solito frequentare per l’estrema vicinanza alla sua residenza, ma suppongo soprattutto, e credo di non sbagliare, per la grande vivacità e ricchezza di spunti che un tale luogo regala in ogni stagione. Lì, infatti, sia nelle ore più affollate che in quelle più pacifiche, quando il rarefarsi delle voci umane lascia spazio ai suoni della natura, per l’animo sensibile e ricettivo diventa possibile riscoprire la presenza di un un mondo alternativo, di una dimensione in cui le urgenze quotidiane e gli schemi sociali si perdono e confondono, percependo il vero essenziale.

L’uomo che conobbi come amico di mio padre sin dalla prima infanzia e i cui pochi ma nitidi ricordi accorrono oggi in ausilio all’analisi critica del suo lavoro pittorico, possedeva uno sguardo eccezionalmente profondo ed un atteggiamento tranquillo, comprensivo e brillantemente ironico. Ho memoria dei consuetudinari appuntamenti settimanali nella distesa estiva del bar del Noce Nero, nel quartiere della Rosta Nuova a Reggio Emilia, dove discorreva con gli amici, tra cui i miei genitori, di politica, filosofia, arte e attualità. Come bambina ero affascinata dal mondo adulto e rimanevo spesso in silenzio ad ascoltare. Roberto non sprecava le parole, ma entrava solitamente nel discorso al momento giusto, senza prevaricare nessuno e, con una breve battuta ironica, scioglieva le tensioni o metteva in campo nuovi argomenti. Anche se allora non ne ero consapevole, quel geometra alto ed elegante, dal temperamento un po’ bohemienne, decisamente estimatore della buona cucina e del buon vino, era anche un artista eccezionalmente prolifico. Oggi, grazie alla disponibilità della sorella Paola e del papà Leonardo, che hanno gentilmente acconsentito e partecipato con gioia all’organizzazione della presente mostra retrospettiva, abbiamo la possibilità di presentare al pubblico degli interessati quella che è, in realtà, solo una piccola,

1 Citazione riportata da Daniela Salati nell’articolo apparso sul sito ufficiale del comune di San Polo d’Enza in occasione della mostra personale di Roberto Delaiti, tenutasi presso la Torre dell’Orologio dall’1 al 24 marzo del

2008. Poco tempo prima il pittore aveva esposto le sue opere alla Galleria Metamorfosi di Piazza Fontanesi a Reggio Emilia.

ma comunque fondamentale parte della produzione artistica di questo pittore per passione, geometra per professione, filosofo per temperamento.

Roberto Delaiti, con la sua cospicua produzione di nature morte, paesaggi collinari, soggetti celesti e ritratti, ha tutte le carte in regola per inserirsi all’interno del panorama della pittura figurativa reggiana tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, con uno stile pittorico e una scelta soggettistica che appare largamente in sintonia con la produzione di almeno due dei maggiori protagonisti della scena artistica reggiana del secolo scorso, due eccezionali pittori come furono Gino Gandini2 e Rina Ferri3. Tuttavia tali associazioni non devono essere interpretate come esaustive di un’operazione artistica dotata di un’originalità unica e preziosa, che è necessario portare alla luce e custodire. Infatti, se concordiamo con la tesi autorevolmente espressa dagli studiosi Gino Badini e Corrado Rabotti4, cioè che la ricerca di una “scuola” reggiana contemporanea vera e propria, con un programma ed uno scopo unitario, è uno sforzo pressochè utopico, per l’assoluta autonomia stilistica e interpretativa dimostrata dalla maggior parte degli autori del nostro territorio, sarebbe superfluo cercare di inserire il Delaiti all’interno di una corrente artistica specifica. In primo luogo perchè, come abbiamo anticipato, il Delaiti non fu pittore per professione e di scuole aveva frequentato non l’accademia, al seguito di qualche eminente professore di disegno, ma quella per geometri, lo storico Istituto Secchi di Reggio Emilia, affinando la tecnica e il talento pittorico da colto e avveduto autodidatta. In secondo luogo, per il grande piacere sperimentativo manifestato nel susseguirsi delle diverse fasi pittoriche che hanno caratterizzato il suo lavoro artistico. L’utilizzo di tecniche differenti, come la pittura ad olio, la matita, il pastello, l’acquerello, si è accompagnato all’evoluzione di uno stile inizialmente più ancorato al disegno e alla figura (come mostrano i primi esperimenti paesaggistici e le squisite nature morte) e, in un secondo tempo, più disposto a lasciare al colore e alla forma elementare, quasi geometrica, il ruolo da protagonisti nelle sue grandi tele di paesaggi ad olio e ad acquerello. Nei più tardi soggetti celesti, la stesura diretta del colore sulla superficie del dipinto è certamente accentuata, senza paura di dire cosa azzardata, dalla pregnanza del gesto pittorico. In queste grandi, ultime tele, dominate dai bianchi delle nuvole e dagli azzurri del cielo, la pennellata diventa campo di forza in lento movimento: si carica di energia e restituisce all’occhio la percezione dello spostamento dei banchi di nuvole nello spazio aereo.

Come se non bastasse, a questa già ricca produzione si accompagna una serie di ritratti, che il Delaiti ha dipinto nel corso di tutta la sua carriera e che forniscono una chiave di volta essenziale allo svelamento di quei “paesaggi interiori” oggetto della sua ricerca artistica. Paesaggi che indubbiamente erano per il nostro autore un collegamento fra l’io e il mondo,

2 “Nato a Reggio il 2 novembre 1912, inizia la formazione artistica alla Scuola di Disegno per operai, dove incontra Ottorino Davoli che, per anni, rappresenta per Gandini il migliore amico e consigliere; frequenta in seguito, come privatista, l’Istituto Venturi di Modena, per poi diplomarsi nel 1942 a Bologna presso l’Accademia di Belle Arti, dove ha come maestri Virgilio Guidi e Giorgio Morandi. Dall’insegnamento di questi due grandi interpreti della pittura del Novecento italiano deriverà, in piena autonomia, la luminosità e il rigore dei suoi quadri.” Reggio: cent’anni d’arte : pittori e scultori del XX secolo : Gualtieri (RE), Palazzo Bentivoglio, 14 aprile-25 giugno 2000 / mostra promossa da Comune di Gualtieri, Assessorato alla Cultura; ideata da Lions Club di Guastalla; a cura di Marzio Dall’Acqua e Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma; Parma : Augusto Agosta Tota, 2000, p. 211-212.

3 “Nata a Campagnola (RE) il 12 settembre 1924, ha frequentato l’Istituto d’Arte Venturi di Modena, dove si è diplomata nel 1949, seguendo poi la carriera d’insegnante, parallelamente a quella d’artista, ed entrando come elemento di spicco nel panorama artistico reggiano. Le sue tele, riccamente materiche, nascono da un nuovo modo di rappottarsi alla natura, che viene rigenerata attraverso le sensazioni elaborate dalla memoria; parte da spunti naturalistici reali per giungere quasi all’astratto in un superamento formale della realtà. Eccellente acquarellista e ottimo incisore, vanta una notevolissima produzione, alimentata da una ispirazione poetica inesauribile, in una continua ricerca esplorativa ed emozionale.” Ibidem, p. 209.

4 Badini, Gino – Rabotti, Corrado. Pittori reggiani. 1751-1930, Reggio Emilia : Tipolitografia Emiliana, 1982.

fra lo spirito umano e la natura. Con poche linee essenziali, senza intento di sublimazione o di eccesso espressionistico, Roberto è in grado di rendere il carattere del soggetto, di scavare nella sua interiorità. Un particolare luccichio nello sguardo, la postura consueta, fin’anche la scelta degli indumenti dovevano rappresentare per il pittore indizi, tappe nella ricostruzione della personalità, del “paesaggio interiore” appunto, dell’individuo ritratto. La sottigliezza psicologica del risultato finale appare davvero unica. Ma c’è qualcosa che in particolare risulta accomunare i diversi esiti pittorici: è la quiete. Una quiete interiore assoluta, forse appartenente più al soggetto dipinto che a quello reale, come fosse colto in uno stato ideale raggiungibile unicamente attraverso il mezzo pittorico: uno stato in cui l’essere può trovare ristoro dall’agitazione e dai continui cambiamenti a cui lo sottopone la vita. Ed è questo tratto a rappresentare il fil rouge della produzione di Roberto Delaiti. Come nei ritratti, la natura dei suoi coloratissimi paesaggi, raffiguranti per lo più scorci del nostro Appennino, è quieta e riposata, non pare soffrire l’afa bruciante della calura estiva o la malinconia che suole portare con sé l’autunno. E’ una natura lontana dai conflitti storici e sociali, dai pregiudizi romantici e dagli idilli campestri; è una natura semplice, senza pretese, che accoglie l’uomo e lo nutre coi suoi colori e i suoi profumi. Il pennello di Roberto ci restituisce la meraviglia e la gratitudine di un istante, quel senso di pienezza e appartenenza che di tanto in tanto coglie l’uomo alla sprovvista, riappacificandolo con la vita.

Guida al percorso espositivo

Il percorso espositivo ideato nella presente occasione ha l’ambizione di fornire, seppure “in piccolo formato”, una guida allo sviluppo artistico dell’autore.

Le nature “vive”

La visita inizia idealmente dalla vetrina a sinistra dell’entrata, con una selezione dei primi lavori degli anni giovanili, appartenenti al genere tradizionale della natura morta. Si tratta di opere di piccolo formato, per lo più ad olio.

La vivace scelta cromatica con cui il pittore tratta le materie prime della cucina povera (specialmente la cipolla, di cui si riesce quasi ad individuare lo stato di maturazione) rende queste nature morte “vive” nella loro presenza, quotidiane e familiari. Insieme ad esse trasmette l’esperienza di esse: le qualità tattili della buccia sottile della cipolla, la rotondità del guscio delle uova. Queste nature “vive”, accompagnate da bottiglie e caraffe di vetro, la cui trasparenza viene resa senza pretesa di virtuosismo, non hanno nulla a che vedere con la metafisica morandiana. E’ una pittura del semplice, in cui forma e contenuto trovano perfetta rispondenza. E’ una pittura delle piccole cose, che tuttavia risultano, dalla prospettiva della cucina tradizionale e contadina, fondamentali. La cipolla: base del soffritto per molte pietanze, primo insaporitore dei piatti poveri. Le uova: pietanza completa e ricca di sostanza, che riporta alla mente l’origine della vita. I mestoli in legno e le padelle di rame: strumenti basilari imprescindibili nell’uso dei fornelli. Le caraffe e le bottiglie di vetro: contenitori che con la loro trasparenza richiamano l’acqua, prima fonte di vita. Se questa pittura potesse trovare casa in una fiaba, sarebbe certamente una fiaba del danese Hans Christian Andersen, una di quelle dove parlano gli animali o le cose5. In campo artistico

5 “Le più belle fiabe di Andersen sono quelle dove parlano gli animali o le cose. (…) Andersen non è mai volgare, ma è, sì, artificioso e convenzionale, quando la sua realtà fantastica non è più <<la pura anarchia della fiaba>> (già esaltata da Novalis), ma si piega alle pesanti leggi della società adulta: gli spunti culturali, le intenzioni moralistiche o didascaliche, offuscano allora il suo puro cielo” Manghi, Alda – Rinaldi, Marcella in: Andersen, Hans Christian.

reggiano, è forse possibile rintracciare un precedente pittorico assai autorevole nelle composizioni con frutta del reggiolese Antonio Ruggero Giorgi6, in cui la semplice vivacità delle mele dipinte ad olio è resa in un contesto privo di fronzoli e affettati ornamenti. Frutta sulla tavola e nient’altro: è in questo modo che il piccolo diventa protagonista e acquisisce la stessa dignità del grande. Nel proprio contesto, assolvendo alla propria funzione, senza un atto di strumentalizzazione, ogni elemento è in armonia con sé stesso e il creato. E’ questa la dimensione che al Delaiti piace restituire in pittura.

I paesaggi e le nuvole

Entrando nella sala principale della Galleria, in un gioco di rispondenze e richiami fra le due pareti laterali, lo sguardo del visitatore si apre sulle ampie vedute paesaggistiche del periodo più maturo. Da un lato si osservano le colline e gli appezzamenti agricoli colorati della provincia reggiana a ridosso degli Appennini. Qui dominano, sapientemente accostati, per lo più toni vivaci: i verdi dei prati, i gialli dei campi e i bruni delle colline. Le pennellate sono larghe e riposanti. Impossibile non richiamare alla memoria alcune opere di Gino Gandini, in particolare l’ “Estate in collina”. In questi paesaggi è possibile cogliere la profonda comunione col dato naturale, lo stupore dell’istante in cui lo sguardo dell’escursionista si posa su un paesaggio conosciuto, ma che non cessa mai di stupire, rinnovando la passione e il legame col territorio d’appartenenza. Così come il giallo dei limoni per Montale, il verde delle colline e l’azzurro del cielo nei dipinti del Delaiti accendono in petto una sinfonia scaturita dal privilegio di poter assistere quotidianamente allo spettacolo della natura, a patto di tenere l’anima aperta e ricettiva.

Sulla parete opposta troviamo appese le tele raffiguranti gli ampi spazi celesti, in cui a fare da protagoniste sono certamente le nuvole, nuvole che piace immaginare vanitose, che si danno importanza con la loro consistenza vaporosa e le loro grandi dimensioni, ma destinate, si sa, a permanenza breve. Esse sono solo di passaggio, le ultime arrivate alla festa e le prime ad andarsene, lasciando nell’artista il desiderio di catturare per sempre il loro sembiante. Con un’istantanea, come ha ad esempio fatto Luigi Ghirri7. Con un dipinto, come nel caso del Delaiti. Si tratta, in ogni caso, di un’azione artistica complessa, perché, se anche il tratto si fa più ampio e deciso, la sfida è quella di cogliere questi soggetti pellegrini nel loro moto lento e incessante, nella loro eterna sfilata.

Margherita Casini

Fiabe, Milano : Giulio Einaudi editore, 1954.

6 “Nato a Reggiolo il 19/1/1887, fin da giovanissimo ha passione per la pittura, ma inizia una vera formazione artistica, all’Accademia Cignaroli di Verona, solo nel 1910, per poi passare nel 1911 all’Accademia di Monaco di Baviera, sotto la guida del prof. Knirr, già maestro di Klee. In quegli anni uno degli assistenti di Knirr è Oscar Kokoschka. Qui conosce Boccioni, che lo invita a fare parte del movimento futurista, ricevendone un rifiuto, ed il boemo Miroslaw Hègr con il quale si reca a Parigi, dove incontra e frequenta George Braque.” Reggio: cent’anni d’arte : pittori e scultori del XX secolo : Gualtieri (RE), Palazzo Bentivoglio, 14 aprile-25 giugno 2000 / a cura di Marzio Dall’Acqua e Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma; Parma : Augusto Agosta Tota, 2000, p. 211-212.

7 Vedi in particolare Infinito, opera realizzata da Ghirri nel 1974 (nello stesso anno l’artista scandianese decide di abbandonare la professione di geometra per dedicarsi esclusivamente alla fotografia): “Infinito. Una sorta di album autobiografico del cielo: 365 immagini di cielo fissate giorno dopo giorno e montate alla fine dell’anno secondo una fitta texture che non segue l’ordine cronologico, offrendogli la possibilità di essere ricomposta all’infinito. Era mia intenzione lavorare su un progetto che non restasse un rigido schema, ma che si aprisse a intuizioni, casualità che incontravo nel corso del fare l’opera.”, http://www.archivioluigighirri.it/biografia-fotografia-paesaggio/.